Pappagalli Verdi - A Gibuti

   La guerra civile si sta intensificando a Gibuti. I ribelli afar fanno  sul serio, anche se i loro mezzi sono molto limitati, rispetto a quelli  dei governativi. Dalla capitale partono colonne di camion carichi di  soldati, e carri armati.
   Incontro Marc, il responsabile della Croce  rossa internazionale e gli propongo di usare il nostro ospedale alla  periferia della capitale per curare i feriti, di ambo le parti. "Noi ci  occupiamo di tutti gli aspetti chirurgici e della sicurezza interna, tu  ci devi garantire il ponte aereo e il trasporto via terra con i mezzi  dell'Icrc."
   "Sì, ma dove li mettiamo i feriti?" mi chiede.
   "Rendiamo disponibile un'ala dell'ospedale, sarà sufficiente."
   "Fammi capire, mi stai dicendo che vuoi mescolare i feriti delle due fazioni nelle stesse stanze, vicini di letto?"
   "Sì, anche perché non c'è alternativa."
   "Mi sembri matto, non accetteranno mai, nè il governo nè gli altri."
   Decidiamo di provarci, comunque.
   Iniziamo a discuterne con le parti in conflitto: i "ribelli" del Frud non si fidano, hanno paura che i loro feriti vengano arrestati all'arrivo nella capitale, o che ci siano rappresaglie non appena metteranno un piede fuori dall'ospedale.
   E quando ci incontriamo per la seconda volta con il capo di stato maggiore della Repubblica di Gibuti, la sua risposta non ci lascia molte speranze: "Hanno dei feriti? Bene, che crepino!".
   Bisogna cercare altre strade.
   Viene da me in ospedale Ibrahim, tenente dell'esercito, un bel ragazzo alto quasi due metri che dicono essere un campione di pallacanestro. Vuol farmi vedere la caviglia slogata. Parla un buon francese, incominciamo a chiacchierare.
   Mi spiega che vive in una caserma con tanti altri soldati, nello stesso campo dove c'è l'ospedale militare, e che ci sono anche molti mutilati. "Sono lì da un anno, doveva venire un chirurgo militare francese a operarli, in modo da poter applicare poi una protesi, ma nessuno si è fatto vivo."
   "E perchè non li mandano qui?" chiedo.
   Ma più che una domanda, è un chiaro messaggio. Ibrahim se ne va col suo gesso e un paio di stampelle, e il giorno dopo una felice sorpresa, telefona il suo colonnello.
   Mi invita nell'ospedale militare, facciamo assieme il giro in corsia e decidiamo di trasferire nove pazienti quello stesso pomeriggio, per essere operati da noi.
   Rivedo due giorni dopo il colonnello Hassan, viene a visitare i suoi soldati operati. Telefono a Marc che si precipita anche lui in ospedale, prendiamo un caffè insieme.
   "Colonnello, c'è un ragazzo di sedici anni nel Nord. E' stato colpito da un proiettile alla schiena, è paralizzato. Vorremmo trasferirlo qui, ha bisogno di cure. Ma ci vuole un lasciapassare, non potrebbe..."
   Il colonnello ci sorride: "So benissimo chi è quel ragazzo, si chiama Ali, è il nipote del presidente del Frud. Ho capito cosa volete da me. Voi due mi state simpatici, vedrò quel che posso fare".
   Un altro giorno, e arriva la risposta: siamo autorizzati a trasferire Ali nel nostro ospedale, e non solo. Il permesso riguarda les blessés, tutti i feriti, senza discriminazioni. CI promettono che saranno rispettati e che una volta curati potremo riportarli nei luoghi di provenienza: non saranno fatti prigionieri.
   Marc e io siamo euforici. Incominciamo subito i preparativi.
   Quando i primi dodici feriti del Frud arrivano in ospedale con un convoglio della Croce rossa internazionale che li scorta dall'aereoporto, incominciano i problemi.
   Una parte di loro si rifiuta di stare nella stessa stanza con i "nemici", i governativi. Si odiano, si sono sparati addosso fino al giorno prima.
   Ma non possiamo, nè vogliamo, tenerli separati.
   Così resto in ospedale fino a tarda sera, a parlare con questo e con quello, a spiegare che lì dentro non ci può essere nè guerra nè politica, che nessuno chiede loro di dimostrare amicizia, ma solo rispetto per gli altri feriti.
   Non ottengo granchè, mi ascoltano senza interesse, senza commenti.
   La notte trascorre senza incidenti, ma il mattino dopo la tensione è ancora alta. Ricoveriamo altri feriti, soldati, ribelli, e civili che si sono trovati nel mezzo.
   Arriva anche Ali, e arriva anche uno dei capi della guerriglia, Merito. Ha entrambe le gambe spezzate da una raffica di mitra, dobbiamo operarlo subito.
   Ali è tra i più intransigenti. E' paralizzato nel letto e sbraita che vuole andarsene, che non può stare a un metro di distanza da chi, forse, gli ha sparato alle spalle. Mi siedo tra i due.
   "Io non so niente di questa guerra, non è il mio paese nè la mia cultura. Ma credo che voi due abbiate pagato abbastanza, l'uno paralizzato, l'altro senza una gamba. Non ci può più essere guerra tra voi, neanche fisicamente. Avete buoni motivi, tutti e due, per odiare la guerra. Non vi pare sia la guerra il vero nemico?"
   Credo di aver usato esattamente queste parole. So di certo che ho dovuto ripetere lo stesso concetto in varie forme, per quasi un'ora.
   Il soldato si accende una sigaretta, non dico nulla, anche se non si dovrebbe fumare nei letti di un ospedale.
   Siamo in tre, e sono l'unico che parla, anche se di sicuro sono quello che ha meno da dire.
   Passa un altro giorno, e dobbiamo ancora negoziare. Perché non dividere i feriti, perché non metterli in camere separate?
   Marc ne sembra convinto adesso, vorrebbe evitare guai in ospedale, anche la Croce rossa verrebbe criticata. Ma io insisto, sono sicuro che otterremmo solo di inasprire i problemi, di aumentare le divisioni. E continuo nel tentativo di trovare una forma di convivenza.
   Ali ha una carrozzina nuova, e sta imparando a usarla. E' ormai lì da tre giorni. Rientra nella sua stanza, per essere aiutato a mettersi a letto per la visita del mattino.
   Nel letto accanto, con mia sorpresa, il "nemico" allunga la mano per spostare le stampelle e lasciare spazio alla carrozzina.
   Forse ci siamo. Forse il tempo scorre lento in quel piccolo afoso ospedale, e invita a pensare, a guardarsi intorno e magari dentro.
   Ci saranno giorni di piccoli gesti, di ostilità che si affievoliscono, di proclami di guerra che diventano semplici disaccordi. Ma continuiamo a parlare, e i feriti-nemici almeno ascoltano, osservano, a volte si guardano.
   Il soldato cerca un'altra sigaretta, girandosi verso il comodino. E incontra lo sguardo di Ali.
   Meccanicamente, senza pensarci come si fa nelle camerate, tra commilitoni, tende il braccio verso Ali come a dire "vuoi fumare?" Ali accetta con un gesto nervoso, quasi gli strappa la sigaretta dal pacchetto.
   Per me è un gran segno, sento gli occhi inumidirsi. Ci vorranno ancora molti giorni, poi diventerà un rito.
   Ogni tardo pomeriggio, all'ombra, sul retro dell'ospedale, si ritroveranno in dieci o quindici, a fumare insieme, e finalmente a parlare. Fino a un mese prima si erano affrontati a colpi di mitra.
   Ci sarà anche Ali nel gruppo, con la sua carrozzina color rosso fiammante che era stata un tempo del console italiano, anche lui paralizzato e poi morto in un incidente stradale.
   E Merito sarà tra i più assidui, in quel bizzarro salotto pomeridiano.
   Già fa i primi passi, con le stampelle e strani pezzi di acciaio che gli spuntano dalle gambe, è un uomo fiero e rispettato da tutti, proprio da tutti.
   Due anni dopo avrei saputo che Merito sta bene. C'è stata una amnistia nel frattempo. Merito fa ancora il militare - mi hanno detto - cammina spedito, e indossa ora l'uniforme dell'esercito regolare.
 
Gino Strada

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